Credo non ci sia luogo migliore per lo yoga che la montagna. Oggi, dopo qualche ora di salita, ho raggiunto un delizioso laghetto, immerso nel silenzio, che rispecchia il cielo terso e le rocce circostanti. È uno dei luoghi più appartati, solitari ed intimi che conosco. Mi spoglio e mi siedo in padmasana su una lastra di pietra, una gigantesca beola liscia che finisce nell’acqua. Resto immobile per lungo tempo, in silenzio, come stupito dall’esistenza questo luogo. Passa credo un’ora e sono sempre beato sulla riva, seguendo i movimenti casuali di qualche girino o incuriosito dai disegni gialli di venerabili licheni, che sono lì da molto prima di me e ci saranno anche molto dopo...
Mi sposto più avanti ed entro nell’acqua: un brivido, ma delizioso; Loto è davvero il nome appropriato per questo asana. I palmi delle mani e le piante dei piedi rivolti in alto sporgono dall’acqua come foglie e sentono il calore del sole, mentre ho la sensazione che il muladhara diventi una radice che affonda sempre più nel terreno, aspirando linfa che mi sembra risalire lentamente e dolcemente lungo la schiena, fino a raggiungere la sommità della testa.
E poi sento come un brivido seguito da un mulabandha involontario che cerco di frenare per restare ancora in questo stato di grazia, ma poi diventa irrefrenabile e si ripete alcune volte lasciandomi in uno stato di gioiosa beatitudine.
Mi risveglio e mi ritrovo ancora seduto in padmasana a contemplare il laghetto in cui mi sono appena sciolto.
Penso che anche il luogo in cui si pratica abbia importanza.
Voi che dite?
Un caro saluto,
Luca