Per comprendere la definizione di mandala in quanto archetipo di individuazione, occorre, innanzitutto, esplicitare il concetto, centrale nella speculazione junghiana, di inconscio collettivo.
Carl Gustav Jung accoglie la nozione freudiana di inconscio, ma la modifica notevolmente. Egli riconosce l'esistenza di un inconscio individuale, che contiene i materiali repressi o rimossi di origine infantile, emergenti nel sogno o nella nevrosi, ma precisa come esso costituisca, solo un aspetto della struttura di fondo della psiche, la quale, oltre a contenere la coscienza e l'inconscio individuale, ospita anche l'inconscio collettivo.
Quest'ultimo non deriva da esperienze e acquisizioni personali, ma è innato. Non essendo di natura individuale, l'inconscio collettivo conserva contenuti e comportamenti che sono comuni a tutti gli individui e costituisce, pertanto, un sostrato psichico comune, di natura sovrapersonale.
Mentre l'inconscio personale è formato essenzialmente da elementi che sono stati un tempo consci, ma sono poi scomparsi dalla coscienza perché dimenticati o rimossi, i contenuti dell'inconscio collettivo non sono mai stati nella coscienza e, perciò, non sono mai stati acquisiti individualmente, ma devono la loro esistenza esclusivamente all'ereditarietà .
Se l'inconscio personale consiste soprattutto in «complessi a tonalità affettiva», a cui è affidata l'intimità personale della vita psichica, il contenuto dell'inconscio collettivo è formato, invece, da archetipi. La loro presenza è ricorrente, per esempio, nei sogni, dove si manifestano spesso contenuti non individuali e non ricavabili dall'esperienza personale del sognante.
Gli archetipi, come l'inconscio collettivo, di cui costituiscono la sostanza, presentano tre caratteristiche peculiari: l'universalità , l'impersonalità e l'ereditarietà .
Per ciò che concerne quest'ultima, occorre ricordare che Jung considera la mente «un prodotto storico alla stessa stregua del corpo in cui si trova ad esistere»1, e spiega che essa «si è sviluppata fino alla sua fase attuale di consapevolezza nello stesso modo in cui la ghianda si viene trasformando in quercia o i sauri sono diventati progressivamente mammiferi. Essa si è venuta sviluppando per un lunghissimo arco di tempo e continua tutt'ora a svilupparsi»2.
Nello stesso modo in cui non si suppone che ogni animale, appena nato, crei i suoi propri istinti nei termini di un'acquisizione individuale, così non è lecito ritenere che gli individui inventino i loro specifici modi di condotta umana dopo ogni singola nascita3.
In virtù di tale constatazione, Jung afferma l'innatismo e l'ereditarietà dei modelli di pensiero collettivo della mente umana. Per chiarire questo concetto, Jung spiega la relazione intercorrente fra istinti e archetipi definendo i primi degli stimoli fisiologici percepibili dai sensi e, i secondi, le fantasie e le immagini simboliche grazie alle quali gli istinti rivelano la loro presenza4.
Gli archetipi rappresentano e segnalano, perciò, delle tendenze istintive che Jung definisce tanto «marcate quanto lo è l'impulso degli uccelli a costruire il nido, o quello delle formiche a dar vita a colonie organizzate»5.
L'universalità del mandala è dimostrata da Jung attraverso numerosi esempi che mettono in evidenza come forme mandaliche siano ravvisabili in diverse epoche storiche e culture: secondo Jung l'arte cristiana europea, per esempio, dispiega un'abbondanza di espressioni che, sia per le loro caratteristiche formali, sia per il significato legato all'utilizzo di una serie di forme geometriche, possono essere considerate dei mandala.
Jung ritrova elementi propri dei mandala nelle aureole che circondano la testa di Cristo e dei santi, nelle ruote solari, nelle rappresentazioni di Cristo circondato dai quattro evangelisti, nei rosoni delle cattedrali e nella croce stessa.
Egli riconosce ulteriori forme mandaliche nei piani urbanistici sia di città antiche quali Roma, sia delle città medievali, sia di città di più recente edificazione quali Washington D.C. Per Jung anche le immagini di dischi volanti ripercorrono l'iconografia del mandala6.
Per ciò che concerne, invece, l'impersonalità , questa discende logicamente dalla collocazione degli archetipi nell'inconscio collettivo, dunque in quella regione della psiche di natura non individuale.
Fra le ulteriori caratteristiche degli archetipi, occorre ricordarne l'autonomia e la dinamicità , sebbene la condizione sine qua non stabilita da Jung per determinare la presenza di un archetipo sia il suo costituirsi tanto come un'immagine quanto come un'emozione: la prima acquista, infatti, un carattere numinoso e produce conseguenze di un qualche rilievo solo laddove sia accompagnata dalla seconda7.
Gli archetipi sono perciò ulteriormente definiti come «immagini integralmente connesse con l'individuo vivente per il tramite delle emozioni»8. Essi costituiscono il legame fra il mondo razionale della coscienza, dove affiorano grazie ai sogni, e il mondo dell'istinto.
Jung osserva, infatti, l'insorgere spontaneo di raffigurazioni mandaliche in pazienti soggetti a stati di disorientamento o di dissociazione psichica, e in particolar modo in bambini, di età compresa fra gli otto e gli undici anni, i cui genitori siano in crisi, o in adulti che, in seguito all'insorgere di una nevrosi e al suo trattamento, si siano confrontati con il problema degli opposti nella natura umana, rimanendone disorientati. O ancora negli schizofrenici, la cui visione del mondo si sia alterata e confusa per l'irruzione di contenuti inconsci incomprensibili.
In tutti questi soggetti Jung nota come l'ordine severo imposto da un'immagine circolare compensi, attraverso la costruzione di un punto centrale al quale ogni cosa sia correlata, il disordine e la confusione dello stato psichico9.
I mandala disegnati dai pazienti di Jung, pur presentando sensibili differenze fra loro, sono accomunati dalla presenza di un centro, di un cerchio e di una quaternità . L'organizzazione di queste forme geometriche in rapporti e in relazioni che evocano la struttura dei mandala buddhisti e hindu, ha portato Jung a ritenere che il mandala costituisca un fatto psichico autonomo, caratterizzato da una fenomenologia che si ripete sempre e che è identica ovunque10.
I pazienti di Jung sono dunque ricorsi a delle risorse e a un sistema implicito di conoscenze ereditato e, dunque, non acquisito attraverso la propria esperienza personale in quanto individui storicamente e culturalmente determinati.
I mandala, in virtù delle loro caratteristiche formali, per l'analisi delle quali si rimanda alla nutrita bibliografia in merito11, sono definiti degli ordinatori di rappresentazioni, dei modelli di comportamento innati e dei fattori di organizzazione che sono propri del genere umano in quanto tale.
Poiché consente la messa in forma dei differenti piani del reale, delle loro reciproche relazioni e della totalità degli stessi piani, il mandala è utilizzato in molteplici pratiche religiose come sostegno nella meditazione, nella contemplazione e nell'ascesi.
Con scopi e forme diverse, il mandala è in uso sia presso gli induisti tantrici sia presso i seguaci del Buddhismo Vajrayana tibetano. Quest'ultimo si caratterizza come un complesso di tecniche e di dottrine salvifiche che costituiscono il terzo veicolo liberatorio del Buddhismo, aperto agli influssi e ai motivi delle scuole tantriche dell'Induismo.
Quello che comunemente si suole chiamare tantrismo risulta di innumerevoli forme: una moltitudine di scuole e di correnti in perpetua osmosi o in reciproca polemica, talune monistiche, altre dualistiche, con alcuni principi fondamentali in comune.
La dogmatica tantrica procede dalla convinzione che l'uno è il tutto, che essere umano, natura e trascendenza non sono dissociati ma, esistendo un'armonia tra individuo e universo, i fattori del macrocosmo corrispondono a quelli del microcosmo e, pertanto, a quest'ultimo è data la possibilità di disporre delle forze dell'altro.
Il mandala rappresenta visivamente questa condizione: esso è uno psico-cosmogramma, un'immagine tanto della psiche quanto dell'universo, la cui iconografia rivela la fondamentale identità fra il corpo e la psiche umani e la struttura del cosmo, un'identità che non coinvolge solo le forme esteriori ma anche le dinamiche interne di mutamento e di mantenimento dei due sistemi.
Gli elementi geometrici che costituiscono il mandala conservano una pluralità di significati che investono tanto il dominio della psiche quanto quello del reale, creando un preciso sistema di corrispondenze fra la vita dell'individuo e quella dell'universo.
Il mandala può essere considerato tanto un quadro del cosmo nell'atto della sua manifestazione, quanto un'immagine della psiche, e l'elemento di continuità fra i due piani, universale e psichico, viene individuato nel kama, il desiderio12, a cui si attribuisce, nella tradizione hindu, l'origine della manifestazione dell'universo13.
La constatazione empirica che queste immagini compaiono spontaneamente in situazioni di disorientamento psichico, è interpretata come una sorta di «tentativo di guarigione da parte della natura stessa»14, sforzo che non deriva da una riflessione cosciente, ma da un impulso istintivo.
La comparsa spontanea di raffigurazioni mandaliche, laddove sia percepita la necessità di ricondurre la propria percezione della realtà fisica e psichica a un ordine armonico, definisce la natura del mandala, non solo simbolo del sé, ma anche archetipo di individuazione e, cioè, immagine di quel processo sintetico teso a integrare l'inconscio alla coscienza15.
La lettura di un mandala, che coincide, dunque, con il processo di individuazione junghiano, implica la partecipazione alla sistole e alla diastole dell'universo, preludio alla palingenesi dell'individuo.
Bibliografia
- C. G. Jung, L'uomo e i suoi simboli, Longanesi, 1980, Milano, pag. 51.
- Ibidem, pag. 65.
- Ibidem, pag. 58.
- Ibidem, pag. 52.
- Ibidem, pag. 52.
- C. G. Jung, L'uomo e i suoi simboli, Longanesi, 1980, Milano, pag. 229.
- Ibidem, pag. 79.
- Ibidem, pag. 79.
- C. G. Jung, Gli archetipi e l'inconscio collettivo, Bollati Boringhieri, 1997, Torino, pag. 381.
- C. G. Jung, Psicologia e alchimia, Bollati Boringhieri, 2006, Torino, pag. 182.
- K. Vatsyayan, The Square and the Circe of the Indian Arts, Roli Books International, 1983, New Delhi. S. Kramrisch, Il tempio indù, Luni, 1999, Milano. G. Tucci, Teoria e pratica del mandala, Ubaldini, 1969, Roma. C. G. Jung, Il segreto del fiore d'oro, Bollati Boringhieri, 1971, Torino. C. G. Jung, La simbolica dello spirito, Einaudi, 1975, Torino. C. G. Jung, Aion: ricerche sul simbolismo del sé, Bollati Boringhieri, 1982, Torino.
- M. Falk, Il mito psicologico nell'India antica, Adelphi, 1986, Milano, pag. 29.
- M. Albanese - G. Cella, Mandala, Xenia, 1997, Milano, pag. 50.
- C. G. Jung, Gli archetipi e l'inconscio collettivo, Bollati Boringhieri, 1997, Torino, pag. 382.
- M. Falk, Il mito psicologico nell'India antica, Adelphi, 1986, Milano, pag. 29.
di Maria Angelillo
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